Santa Rosalia

La vita

Rosalia era nata nella prima metà del XII secolo in un regio palazzo di Palermo da una nobile famiglia. Suo padre, il duca Sinibaldi, era un vassallo dei re normanni: Ruggero Il lo aveva nominato signore della Sierra Quisquina e del Monte delle Rose, un feudo che si estendeva tra la provincia di Palermo e quella di Agrigento. La madre, che qualche storico identifica in una nobile di nome Maria Viscardi, era imparentata con la famiglia reale normanna e la tradizione che voleva fame discendere la stirpe da Carlo Magno parve così probabile anche a papa Urbano VIII che nel 1630 ne autorizzò la pubblicazione nel Martirologio Romano. Il nome che i genitori scelsero di imporle alla nascita è una contrazione del latino «Rosa Lilia» ovvero rosa e gigli, fiori che simboleggiano rispettivamente la regalità e la purezza e che, per straordinaria fatalità, anticiparono due delle qualità che contraddistinsero nella vita la vergine palermitana. La nobile giovanetta trascorse i primi anni nella splendida reggia paterna, sui cui ruderi in seguito la devozione popolare volle edificare una cappella. Dalla nobile famiglia ottenne una buona educazione e una solida formazione cristiana. Ben presto per le sue doti di cortesia e di regalità, oltre che per la sua straordinaria bellezza, fu scelta come damigella d’onore della regina Margherita, figlia del re di Navarra e moglie di Guglièlmo I detto il Malo, che dal padre Ruggero Il aveva ereditato il trono di re di Sicilia. Cosicché alla corte reale, nella splendida cornice del Palazzo dei Normanni, nella quale oggi ha sede l’Assemblea regionale siciliana, la giovane Rosalia divenne spettatrice di eleganti e sontuosi eventi mondani.

La vocazione

I genitori avevano previsto per lei un nobile matrimonio, come si conveniva alle giovani del suo rango e Rosalia, per rispetto verso la decisione della famiglia, inizialmente non vi si oppose. Ma secondo la tradizione popolare una visione straordinaria la indusse improvvisamente a rinunciare al matrimonio e al lusso della vita di corte. Il giorno in cui avrebbe dovuto incontrare l’uomo che era stato prescelto per le nozze, il nobile e coraggioso Baldovino, un cavaliere che si era distinto per aver salvato dalle fauci di un leone re Ruggero Il, Rosalia guardandosi allo specchio, invece della propria immagine, vide riflessa quella di Gesù Crocifisso con il volto rigato di sangue per la corona di spine conficcata nella fronte. La giovanetta non ebbe dubbi: interpretò quella visione come la chiamata che Cristo le rivolgeva e, rivelando ai parenti e alla corte che il suo unico desiderio era quello di andare sposa solo a Cristo, lasciò il palazzo reale per abbracciare la vita consacrata.

Il chiostro

Sulla presenza di Rosalia in monastero gli storici locali sono divisi: alcuni sostengono che avrebbe scelto direttamente la via dell’eremitaggio, altri che preparò quel duro passo con alcuni anni di vita in convento. Tra coloro che propendono per la tesi conventuale, inoltre, vi è chi la descrive monaca dell’ordine benedettino, chi professa di quello basiliano, e chi non pone la questione in termini di alternativa e compendia entrambe le ipotesi. E così, secondo una parte della tradizione, appoggiata dallo storico Tornamira e accolta da papa Urbano VIII, Rosalia avrebbe scelto a guida della sua anima l’ordine benedettino. Su consiglio di san Guglielmo da Vercelli, fondatore del santuario di Montevergine, che in quei tempi era a Palermo, si sarebbe ritirata in convento a Bivona e a Santo Stefano di Quisquina dove si trovavano monasteri di eremiti benedettini, e solo in un secondo tempo avrebbe ottenuto il consenso dall’arcivescovo di Palermo, Ugone, di passare alla vita eremitica. Questa tradizione spiegherebbe il fatto che in quei circoli monastici fiorì una fervida devozione alla santa anche immediatamente dopo la sua morte. Secondo altri autori, tra cui il gesuita Giustiniani e lo storico Stilting, Rosalia sarebbe stata una monaca fedele alla regola greca di san Basilio Magno. I sostenitori di questa tesi identificano nel monastero basiliano, un tempo annesso alla chiesa normanna della Martorana a Palermo, e in quello greco del Santissimo Salvatore, i luoghi in cui Rosalia avrebbe trascorso un periodo di prova, e nel cenobio di Santa Maria la Grotta a Melia il luogo della sua formazione. Il monastero di Melia, che in epoche più recenti è andato distrutto, era un istituto eremitico che sorgeva tra le caverne che avevano ospitato.

i cristiani all’epoca delle persecuzioni e che in quegli anni erano usate dalle monache basiliane per trascorrervi periodi di isolamento. La spiritualità mistica greca, basata sulla ricerca della solitudine e della pace contemplativa, insieme a questo luogo di raccoglimento, sarebbero state all’origine della decisione maturata da Rosalia di ritirarsi definitivamente a vita ascetica. Altri storici, ritenendo le due tesi ugualmente verosimili perché tanto il monachesimo occidentale benedettino che quello greco basiliano potevano tornare graditi alla Santa per la loro rigidezza, non escludono una terza ipotesi: Rosalia avrebbe frequentato, in maniera alternativa e saltuaria, i conventi dei due ordini, scegliendo sin da principio di vivere in solitudine. In effetti, se è vero che i santi monaci siciliani del X secolo – come sant’Elia, san Vitale e san Cristoforo – hanno vissuto quasi tutti una propria esperienza eremitica, è altrettanto vero che, soprattutto nei primi secoli della Chiesa, non erano rari gli esempi di santi che si trasferivano in solitudine contemplativa pur non essendo mai stati monaci, come fece san Paolo.

La lettera in greco

Due reliquie, descritte dagli storici ma non più ritrovate, dovevano segnare il passaggio della santa pellegrina dal monastero greco del Santissimo Salvatore a Palermo e accreditare così la tesi che fosse stata professa dell’ordine basiliano. Secondo la testimonianza raccolta dal biografo Mongi- tore, una lettera scritta in greco e un frammento di legno contenuti in una piccola teca furono trovati da un muratore durante i lavori di ampliamento all’interno del monastero. Si sarebbe trattato di una reliquia della Santa Croce – che Rosalia avrebbe ereditato dai suoi antenati reduci dalle guerre di Gerusalemme e che avrebbe deposto sull’altare del patriarca san Basilio prima di lasciare il convento – e di una lettera scritta di suo pugno in lingua greca a corredo di quell’offerta. Il monastero è andato distrutto quasi interamente, ma una lapide di marmo nero posta all’interno dell’oratorio del Santissimo Salvatore – una splendida costruzione a pianta ellittica edificata tra il 1681 e il 1699 a poca distanza dal luogo in cui nel XII secolo sorgeva il monastero – riproduce il testo smarrito sia nella versione greca che nella sua traduzione latina. Qui Rosalia, definendosi suora, dichiara la propria devozione verso l’ordine basiliano con le parole: «Io, suor Rosalia Sinibaldi, lascio questo legno del mio Signore in questo monastero al quale sono sempre legata». L’eremitaggio

Così come aveva lasciato gli ori e i damaschi della vita di corte per coltivare con più perfezione la pietà e la vita contemplativa, Rosalia decise di abbandonare anche quelle umili comodità che poteva offrire il chiostro e di intraprendere la vita anacoretica per trascorrere ogni ora delle sue giornate nella più assoluta solitudine e nella preghiera. Il suo desiderio era quello di non posse- dere altro che il cielo come tetto e la terra come letto. Sapeva che quella scelta l’avrebbe condannata alla morte civile, l’avrebbe costretta a vivere tra asprezze e austerità nel crepaccio di una roccia, tra squallide ombre e senza altra compagnia che la voce muta della natura. Ma Rosalia non aspirava ad altro perché voleva rendersi sempre più degna del suo sposo Crocifisso. Era certa che la solitudine sarebbe stata la custodia esterna della sua purezza e che, con una particolare assistenza dello Spirito Santo, la sua anima nel deserto si sarebbe affratellata con gli angeli. E così, alla morte di Ruggero Il, chiese ed ottenne di poter vivere in eremitaggio nella Sierra Quisquina, feudo del padre.

La Sierra Quisquina

Una notte buia, per evitare che anche la più fioca luce svelasse a qualcuno la sua presenza rendendo vano il suo progetto di vita nascosta, con il solo chiarore delle stelle a guida dei suoi passi, la vergine palermitana si diresse verso un monte sulla Sierra Quisquina. Non volle portare con sé altre cose se non gli oggetti più cari: una piccola croce d’argento e una corona per il Ro- sario, di cui sono stati ritrovati alcuni grani, accanto alle reliquie del suo corpo, ora custoditi nella cappella del Tesoro della cattedrale di Palermo. Si rifugiò in una piccola caverna aperta nella roccia sul fianco nord della Sierra Quisquina, una catena montuosa nelle Madonie che separa la provincia di Palermo da quella di Agrigento. Era un luogo buio e umido, incuneato tra due poggi: il monte Cammarata ad est e il monte delle Rose ad ovest, un angolo di terra così nascosto tra i boschi che i saraceni lo avevano chiamato Quisquina, dall’arabo «Coschin» che significa «oscuro». L’anfratto scelto per ritirarsi in preghiera e castità era poco più di un cunicolo, al quale si poteva accedere solo se inchinati. All’interno la caverna era piccola e buia e formava alcune cellette anguste collegate tra loro da stretti corridoi. In quella grotta remota, protetta da una fitta vegetazione e nascosta nel cavo della roccia, nessuno poteva accorgersi della sua presenza. Così Rosalia poté trascorrere in assoluta solitudine dodici lunghi anni di esilio volontario, dedicandosi esclusivamente alla preghiera e all’ascetismo.

L’iscrizione latina

La precisione con cui si determinano la durata e il luogo esatto dell’eremitaggio è dovuta al ritrovamento di un’epigrafe scritta in latino, da sempre considerata una testimonianza autografa della santa. La frase che la vergine volle imprimere sulla roccia nei pressi della grotta in cui visse, come segno riconoscibile del suo passaggio, tradotta in italiano, recita così: «Io Rosalia figlia di Sinibaldi, signore della Quisquina e delle Rose, per amore del mio Signore Gesù Cristo decisi di abitare in questa spelonca». A corredàre l’incisione, nell’angolo basso di sinistra, compare anche la cifra « 12 » che è stata letta e interpretata da sempre come il numero degli anni che la santa trascorse nella grotta. Il ritrovamento dell’epigrafe, incisa profondamente su una superficie di roccia ben levigata, con lettere alte due dita disposte su nove linee irregolari, per straordinaria coincidenza è avvenuto il 25 agosto 1624, 40 giorni dopo l’invenzione del suo corpo in una caverna sul Monte Pellegrino e dopo cinque secoli dalla sua morte. Gli artefici del ritrovamento, confermato dall’anziano sacerdote Giovanni Labarbera, sono stati due muratori palermitani che stavano lavorando alla costruzione del convento dei domenicani a Santo Stefano di Quisquina. Si tratta di un reperto di grande interesse che conferma quale sia stata l’unica ragione che spinse Rosalia a vivere in solitudine: con poche e semplici parole, infatti, la santa pellegrina ha voluto assicurare che a farle abbandonare la ricchezza paterna non era stata la paura, né il rimorso, ma il grande amore che nutriva per Cristo Signore.

Il Monte Pellegrino

La vera ragione che indusse Rosalia a lasciare la Sierra Quisquina per isolarsi in un’altra grotta sul Monte Pellegrino, a circa tre chilometri da Palermo, è in realtà sconosciuta. Alcuni autori sostengono che in seguito a una violenta ribellione dei conti e dei baroni contro i Normanni, nella quale rimase ucciso anche il duca Sinibaldi, tutti i beni della famiglia furono confiscati e con essi anche la Sierra Quisquina. Secondo la tradizione Rosalia, ricercata dagli inviati che si aggiravano tra le rupi quisquinesi, si nascose nel tronco vuoto di una quercia e si salvò. In quello stesso luogo, successivamente, fu eretta una chiesetta a perpetuare il ricordo di quell’evento miracoloso. Rosalia, non sentendosi al sicuro in una terra che non era più di proprietà della famiglia, avrebbe deciso di allontanarsi e di ritirarsi sul Monte Pellegrino, in quel tempo una terra demaniale, che la giovane ottenne «in dote» dalla regina Margherita. Da sempre fortezza inespugnabile e baluardo incrollabile contro Romani e Saraceni, il Monte Pellegrino, montagna calcarea di 606 metri a picco sul golfo di Palermo, al tempo dei Greci era chiamato «Ercta», ossia «impervio». E infatti i suoi fianchi scoscesi erano difficilissimi da scalare e addirittura il lato mare era inaccessibile, mentre la vetta era sempre sferzata da umidi venti di tramontana: un luogo inospitale che Rosalia scelse considerandolo adatto ad un duro esilio.

Le rinunce e le tentazioni nella grotta

Dopo aver scalato il Monte Pellegrino attraverso un sentiero impervio che dal bosco della Favorita portava alla vetta, Rosalia designò come povera dimora una caverna rude, inospitale e circondata da un paesaggio selvaggio. Qui le sue giornate trascorrevano nel rigore assoluto, nella rinuncia ad ogni cosa, nella penitenza e nella continua adorazione di Cristo. Il suo corpo era sfinito perché la santa romita non aveva alcun pensiero o senso che non fosse crocifisso. Ma sapeva che quella era la sua strada per la santità. La tradizione popolare nei secoli ha arricchito con fantasia e colorito con leggende questo soggiorno solitario. Il demonio l’avrebbe tentata più volte, presentandosi a lei sotto varie vesti, ora come giovane aitante, ora come messaggero della famiglia in pena, ma sempre invano perché Rosalia sapeva opporsi con energia a qualsiasi tentazione, lusinga o seduzione. In quella grotta la santa visse gli ultimi anni della sua vita, nessuno sa esattamente quanti, fino al giorno della sua morte, avvenuta il 4 settembre del 1160, quando aveva circa 35 anni.

La morte e la sepoltura

Non appena comprese che era arrivata la sua ultima ora, Rosalia docilmente si preparò a quella partenza, passaggio necessario alla nuova e migliore vita. Adagiatasi sul suolo della grotta nascosta, fece della sua mano destra l’ultimo guanciale e strinse al petto con la sinistra il piccolo crocifisso. La posizione del corpo, nella quale furono ritrovate le reliquie cinque secoli dopo, è quella di una dormiente e non di chi lotta contro la morte e perciò testimonia che la santa spirò senza malattia, come la Madonna, indebolita solo dalla profusione di energie spese nell’amore in Cristo. La morte arrivò senza il conforto di alcuna persona che, se fosse stata presente, avrebbe composto la salma, com’è da sempre in uso, con le mani congiunte al petto e l’avrebbe trasferita al più vicino cimitero invece di seppellirla sottoterra in una spelonca umida. Invece, in coerenza con una vita isolata e nascosta, Rosalia morì senza assistenza e senza pianto, trasformando la sua dimora in sepolcro. Ma ad una santa il Cielo non può negare gli estremi onori della sepoltura: secondo la tradizione una schiera di angeli scese sulla terra per seppellire il suo corpo che, in effetti miracolosamente venne poi ritrovato pietrificato, quindici piedi sotto terra, in un guscio chiuso di roccia come se fosse stato sepolto da qualcuno in un urna offerta dalla natura.

Preghiera a Santa Rosalia

scritta da Salvatore Card. De Giorgi – Arcivescovo Emerito di Palermo

O Santa Rosalia,
fulgidissima gemma di verginale santità
della nostra Città di Palermo,
a Te con fiducia rivolgiamo la nostra preghiera.

Tu, che ti ritirasti
nella solitudine di Monte Pellegrino,
non per evadere dalla città,
ma per vegliare su di essa
con la preghiera e con la penitenza,
e liberarla, così, dalla peste di ogni male,
aiutaci a liberarci dal peccato,
radice di tutti i mali sociali,
e a orientare la nostra vita a Dio,
fonte di ogni serenità.

Tu, che fosti sempre fedele
alla grazia e agli impegni del Battesimo,
aiutaci a divenire sempre più consapevoli
di questo primo sacramento della fede,
che ci ha resi figli adottivi di Dio
inserendoci in Gesù Cristo
con il dono dello Spirito Santo,
e a viverlo con fedeltà e coerenza
per essere “sale della terra e luce del mondo”,
fermento evangelico di rinnovamento
religioso, morale e sociale
nel nostro territorio.

Rendi salda la nostra fede,
perché la professiamo apertamente
e la difendiamo con coraggio,
senza mai vergognarci del Vangelo
e la traduciamo ogni giorno nella nostra vita.
Rendi viva la nostra speranza,
fondata sulle promesse
di Colui che non delude
ed è accanto a noi
soprattutto nell’ora del dolore e della prova.

Rendi operosa la nostra carità,
che è l’amore stesso di Dio
riversato nei nostri cuori,
perché sappiamo vederlo, amarlo e servirlo
in tutti gli uomini,

ma specialmente nei più piccoli,
nei poveri, negli ammalati e negli emarginati.
Guidati dalla Vergine Maria,
accompagnaci nel cammino della vita cristiana,
che da Cristo e con Cristo
per mezzo dello Spirito
ci conduce al Padre,
per costruire incessantemente
il suo Regno nella verità e nella vita,
nella santità e nella grazia,
nella giustizia, nell’amore e nella pace.

Amen.